VECCHI ANEDDOTI DI PICENZE

di UMBERTO SPERANZA e CAROLINA BONOMO

Quando eravamo ragazzi andavamo in campagna. E dopo aver finito di lavorare ci radunavamo nelle stalle, il calore delle bestie ci teneva caldi. Ci si passava molto tempo e si raccontavano le storie.

Quando ero piccolina mia madre si è ammalata, avevo sette anni. Non avevo chi mi accudiva. Non avevo niente. Un giorno a scuola mi si strappò la parte davanti del maglione che indossavo e dovetti prendere la sciarpa che usavo la domenica in Chiesa per coprirmi. Quando mia madre guarì, volle andare di nuovo in chiesa e vide la sciarpa tagliata. Ma non mi rimproverò, anzi, mi disse che avevo fatto bene.

Avevo dieci anni quando vennero i tedeschi per la guerra. Non tutti erano malvagi. Alcuni di loro regalavano anche qualcosa, come caramelle. In quei tempi l’Italia e la Germania erano alleate di guerra. Per via del fascismo da noi e il nazismo da loro. Ci sono stati anche dei soldati bravi, poiché anche loro erano padri di famiglia.

Una notte dei tedeschi bussarono in casa. Mia madre tremava come una foglia. Volevano dormire e cercavano un posto. Fummo costretti a farli entrare e avevamo paura. Tuttavia, i tedeschi ci riassicurarono che non volevano farci del male, volevano solo un posto per riposare. Difatti, la mattina dopo, se ne andarono lasciandoci tre kilogrammi di sale.

Lavoravamo molto. Come tutti i cittadini di Picenze, stavamo sempre nei nostri terreni. Poi, essendo orfano di guerra, mi mandarono a Roma a lavorare.

Quando la maestra faceva domande come “Chi ha imparato la poesia?” o “Chi ha fatto i compiti?” io alzavo sempre la mano, ma poi mi stringeva le guance perché non era vero. Ero una somara. Non mi piaceva la scuola.

Di ricordi felici ne ho molti. Bastava che la sera suonassimo con la fisarmonica per essere felici. C’era un vecchietto chiamato “Zi’ Umberto” che cantava ogni sera. Con lui cantavamo tutti quanti.

Quando rimasi orfano, mi mandarono in un collegio dove c’erano le suore. Non si stava tanto male. Mamma mi veniva a trovare e mi mandava qualcosa quelle volte che poteva. Cambiai vari collegi e finii a Roma, dove incontrai molti orfani come me. C’era la crisi, ma non stavamo del tutto male. Grazie ai benefattori che ogni tanto donavano qualcosa.

Per ogni famiglia si cercava di coltivare i terreni e allevare il bestiame il più possibile. Perché si era in tanti in casa. Noi, per esempio, eravamo cinque figli con mamma e papà che era già in Africa, dove morì. Ci si aiutava molto anche tra parenti e vicini.

Quando andavamo a portare l’acqua alla vigna del prete Don Giovanni faceva molto caldo. Un giorno era l’una e avevo molto fame. Sua sorella portò tre uova dandocene una per mangiarla. Non mi bastava però. Così, non appena si allontanò, mi mangiai di nascosto le altre due mettendomi i gusci dentro la maglia.

Dalla piazzetta Bonomo salivo con quattro o cinque pagnotte e le portavo al forno. Si faceva la pizza con le cotiche di maiale sopra. Erano una specialità. Se si facessero, anche oggi verrebbero apprezzate.

Una volta terminate le lezioni alla scuola, si dovevano pulire le stufe. Un signore chiamato “Zi’ Ricciardo” mi chiese di aiutarlo a riportare la brace. Ce ne riportammo due secchi a testa. Mamma lo metteva al camino e ci stavamo bene tutta la giornata.

Un giorno, con un signore chiamato “Zi’ Federico” stavamo tornando dai campi di Fossa con l’asino che andava molto lento. Faceva molto caldo e stavamo bollendo. Decisi di tiragli un colpo di frusta per farlo velocizzare, ma sbagliando colpii Zi’ Federico che si arrabbiò molto.

Dopo la guerra erano tempi difficili. C’era la crisi e allo stesso tempo c’erano molti figli da campare. Una volta difatti Picenze era strapiena. C’era molta gente in ogni casa.

Io e un altro ragazzo di nome Piero andavamo a Barisciano. Vendevamo le ciliegie, ma in cambio non volevamo del denaro. Accettavamo solo patate. Così, quando tornavamo a casa, mamma ce ne faceva una scodella intera. Era un alimento raro per noi.

I tedeschi fecero crollare l’edificio scolastico. Un giorno, lì, trovai dei proiettili. Mi venne la folle idea di portarne uno a casa. Quando lo misi dentro il camino, fece uno scoppio enorme e saltò tutta la cenere. Mia madre, per punizione, mi diede un morso proprio sul sedere.

Quando insistevo dicendo a mia madre che avevo fame, lei mi rispondeva “tira la coda al cane che ti dà pane e salame”.

C’era un signore di Picenze di nome Berardo che noi chiamavamo “Berardino”. Andò per qualche giorno a Roma per lavoro, ma decise di ritornare subito perché non gli piacque la città. Una volta tornato a casa, raccontò a tutti che si stava meglio in Italia che a Roma.

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